C’era la neve.

Piazza Castello il 9 gennaio, Milano imbiancata da 20 cm caduti nella notte. Il clima giusto per salutare  cinque ragazzi che andavano a fare il militare, in montagna, alpini, Scuola Militare Alpina, Aosta.

C’erano i parenti, le lacrime della mamma, l’amico che restituiva il saluto dopo sei anni dalla propria partenza.

Il pullman partì puntuale lasciandosi dietro certezze effimere e spalancando davanti una voragine di ansiosa curiosità. Il viaggio pieno di risate, aspettative, speranze.

C’era Federico che raccontava la Smalp attraverso gli sbiaditi ricordi scritti su un foglietto del fratello che aveva frequentato il corso AUC anni addietro.

C’era Roberto con i capelli lunghi, ma lunghi, che sosteneva fosse inutile tagliarli, tanto li avrebbero rasati loro. C'erano Vittorio e Walter.

C’era chi partiva perché obbligato, chi perché voleva primeggiare, chi per scappare da situazioni irrisolvibili.

C’era meno neve ad Aosta, quando il pullman terminò la sua corsa.

C’era una pasticceria, lì di fronte alla stazione degli autobus in piazza Narbonne. Ottima la colazione prima della presentazione alle 11.30 (il termine era mezzogiorno) alla caserma, cartolina in mano.

Un piantone chiese di chi si trattasse, poi disse di aspettare. Arrivò un ufficiale, magro e alto, con un cognome adatto al ruolo, Monti. Ordinò loro di seguirlo e il piazzale vide un ufficiale che correva con dietro cinque ragazzetti in borghese stentare a stargli dietro complici anche le pesanti borse che reggevano con una mano e che sbilanciavano la loro corsa, insieme alla sorpresa.

C’erano dieci, cento altri ragazzi in borghese tutti in fila, ad ascoltare il Discorso.

Un altro sottotenente stava avvisando che entrati lì nulla sarebbe più contato di ciò che c’era fuori, la ragazza si sarebbe messa con l’amico, le comodità della vita borghese dimenticate, fino ad una minaccia che era una promessa, non si capiva quanto una quanto l’altra. Qui dentro, diceva, arriverete a cose che adesso neanche immaginate lontanamente di poter arrivare a fare.

C’era il tempo per pensare, un tempo. Ora correvano, da una parte all’altra della scuola, prima in aula, assegnazione delle camerate e della branda, poi a recuperare tutto il materiale, le prove dal sarto per le divise, tutto di corsa, senza sosta.

Poi il barbiere per i capelli, l’obbligo di radersi le barbe. I capelli con sfumatura all’altezza delle orecchie, parte alta del padiglione, non i lobi.

In due giorni, due secoli, presero forma dei soldatini, piccoli alpini dalle penne tremanti, lì per diventare aquile impavide e resistenti a freddo, sonno, angoscia, nostalgia.

La mattina la sveglia suonava con la voce stentorea dell’allievo ufficiale di servizio. “Sveglia prima compagnia” urlava, mentre fuori la notte avvolgeva le montagne con una coltre di ghiaccio. Dieci minuti dopo echeggiava il nuovo comando “Adunata prima compagnia” e centocinquanta formichine in tuta di cotone blu riempivano il cortile di fronte alla palazzina, fermi sugli attenti, in spasmodica attesa di cominciare la corsa per vincere il freddo intenso che li faceva fremere più di qualsiasi altra cosa.

Dalle sei alle sette e mezza a correre lungo le strade di Aosta, piazza Chanoux deserta animata dagli scatti guidati dai nervosi comandi degli ufficiali.

Il ritorno, lavarsi con un filo di acqua perché le tubature erano ghiacciate, fare i servizi a cui si era preposti, colazione, di corsa, in mensa e poi, Adunata.

Quella vera, quella con l’alzabandiera, quella delle otto di mattina. Quando l’alba colorava la caserma e tutti erano presenti sul piazzale principale, il battaglione AUC, gli alpini di naja, i comandanti, il Capitano.

Lui, il Capitano, un fascio di nervi e volontà, rigore, precisione. Lui che era capace di spennare un rametto di abete a cento metri con otto colpi, imbracciando il Garand inginocchiato, senza mirare. Lui terrore dei suoi uomini durante le guardie notturne, che si nascondeva sui tetti per saltare agile come una lince e sfidare la reattività delle sentinelle. Vero Capitano, rigoroso, inflessibile, ma anche giusto, ed equo.

I giorni passavano, e la neve tornava a cadere. Un giorno partirono da Aosta alle 7 che iniziava a fioccare, destinazione Pollein, dove c’era il mitico e temuto campo di assalto. I fiocchi erano grossi come noci, la neve cresceva a vista d’occhio e così tanto da non far distinguere il reticolato basso. E poi ancora e ancora, tanto da rendere irriconoscibile la strada del ritorno, quindici chilometri sommersi nella neve. Al rientro la Smalp sonnecchiava sotto 80 centimetri di bianca neve.

C’era la neve.

Ogni giorno, adunate, punizioni, lezioni in aula, marce, poligono di tiro. Per gli alpini in montagna, ogni tanto la pausa, la sigaretta fumata di nascosto, al sole che scioglieva gli ultimi pensieri rimasti.

C’era il freddo.

Freddo del ghiaccio, freddo della fatica, freddo della stanchezza.

Montare di guardia con 20 gradi sotto lo zero, con quattro maglie sotto il cappotto, calzamaglie e mutandoni di lana ruvida e calda, con il terrore del Capitano.

Con il cappello alpino, bello e fiero, sì; ma senza i paraorecchi. E le orecchie con vento e gelo diventavano cristalli fragili e dolorosi, come i pensieri di nostalgia sfuggente.

Giorni, marce, freddo, neve.

Notti, guardie, freddo, neve.

21 febbraio, c’era il sole. Marcia a Pollein, per l’assalto.

Sosta in riva alla Dora Baltea. Il capitano guarda, annuisce, sorride.

Il sole scalda il freddo e la neve.

L’assalto lungo il bianco campo, rotto solo dal nero del filo spinato, le tute mimetiche bianche interrotte dagli elmetti appena mimetizzati da neve sotto la retina.

Appena prima del reticolato un alpino, in quel momento caposquadra, mentre rotola sente un dolore acuto e devastante; sente il ginocchio tendersi e rilasciarsi come una cinghia elastica di un motore quando si spezza.

C’era la neve, bianca e luccicante sotto il sole brillante di febbraio.

Una mano alzata, una camminata zoppicante, un’ambulanza militare, gli insulti del Capitano che nascondevano la preoccupazione.

Il sole scioglie tanta neve, ma non le lacrime di dolore e di stizza.

C’è chi torna in plotone, guada eroicamente la Dora gonfiatasi dal caldo improvviso fino a raggiungere un metro e mezzo di profondità.

C’è chi torna mestamente in ambulanza, con conati di vomito ad ogni curva, con la speranza, vana, che si tratti di un infortunio lieve.

Invece: ospedale civile, gesso.

28 febbraio, prima dell’alba. Il piazzale della caserma si prepara alla cerimonia del giuramento. L’aria è ferma e silente, in compagnia del consueto freddo. Il rumore di un furgone militare FIAT 900 lo taglia in obliquo. A bordo l’alpino, ingessato alla gamba, ferito nell’animo, a portar via fatica e sogni.

Due ore dopo Torino, ospedale militare; l’indomani Milano di nuovo.

C’era la neve.

 

 

 

 

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