Incipit
Questa è una piccola storia di mia mamma, storia di ricordi – miei – e ricordi di ricordi – suoi -.
E’ una piccola storia per un grande obiettivo: far sì che chi la legge, aven-do conosciuto mia mamma, la ricordi e la pensi; e nel pensiero del ricordo la faccia vivere nel proprio cuore.
E che chi la leggesse senza averla mai conosciuta, gli venga un piccolo rimpianto di non averla incrociata, almeno una volta, nella propria vita; e nel rimpianto,  farla vivere nella propria mente.
Questa è la mia, piccola, storia di mia mamma, a cui voglio molto bene.
 
 
Il 26 luglio, guidando l’auto lungo la strada disperata e dolorosa, per vedere mia mamma, appena morta, in preda al dolore impietoso del figlio a cui viene strappato il cordone ombelicale, guardando il cielo e ripensando agli anni andati e all’amore che non sfuma mai, anche se annebbiato dal dolore.
BELLA NOTTE
Bella notte, notte di luna piena
Aria tersa e leggera
Estate come primavera.
Bella notte dopo giorni di sole
Caldo e profondo e vero
A segnare il sentiero.
Bella notte per dormire il ricordo
Piangere, sognare ancora
Il viso della prima ora.
 
 
Lettere
 
 
PRIMA VEGLIA
Eccomi qui, alle due di notte, in una stanza d’ospedale a badare a te, mamma, che per tante notti e tanti giorni ti sei occupata di me, sin da quando mi hai messo al mondo. Così è la vita, si dice: è una ruota che gira, eccetera eccetera. 
Però è strano e doloroso, incredibile e insolito. Io qui a scrivere in questa notte di gelo e stelle, in una stanza di questo ospedale in cui tu riposi dentro un letto anonimo la tua confusione, in attesa che se ne vada – così all’improvviso – come è arrivata, beffarda e crudele. Quante frasi sconnesse hai detto, inventato parole ed espressioni che vorrei ricordare, ma che non mi impor-ta di ripetere. Forse dovrei dormire, ma il tuo ripetuto scattare seduta, volerti alzare – spaventata ed arrabbiata – mi spinge a vegliare, attento come da sentinella, sul tuo sonno fragile e scomposto. E tranquillizzarti con dolci parole, oppure toglierti e metterti la coperta al tuo sentir caldo o freddo, mi ricorda quando tu hai vegliato su di me, sul mio sonno e sulla mia vita. E tutto questo mi commuove ed impreco alla vita che gira come una ruota, mentre io non vorrei, non voglio. Io vorrei che tutto rimanesse uguale, con te sempre viva e vigile, sempre pronta a brontolare, sempre con la sigaretta in bocca; al mare in spiaggia, in montagna a passeggio, in casa, in macchina; sempre e dovunque. Tutti – dicono – vorrebbero, anzi pensano, i genitori eterni. Anch’io non sfuggo a quest’altro luogo comune, me ne sono reso conto qualche volta in passato, in modo vago, ed ora certamente e con una forza tale da darmi dolore. Me ne sono accorto, vivo questa sensazione nello stare qui mentre scrivo e tu accanto a me russi la tua vecchiaia; mentre poco distante – nel letto lasciato a metà vuoto da te, in casa vostra dorme papà, stanco e spaventato da tutto questo.
E mi sento così impotente di fronte a tutto questo e la mia rabbia si sfoga in silenti lacrime di disperazione. Forse più disperate perché tutto il bene che mi avete e mi volete tu e papà io non posso trasmetterlo ad un figlio che non ho. E il desiderio di averlo è forte e pre-sente come l’amore  che vivo con il mio angioletto biondo Lorena, la mia metà tanto cercata e tanto sofferta. Eppure questo figlio non arriva, e noi soffriamo.
Tu questo non lo sai, perché ti preoccuperebbe, ma io so quanto saresti felice di vedermi padre, magari di una bambina!
Però non si può sempre disporre della propria vita a proprio piacimento. Ma che senso ha la vita? Il più  facile ed immediato è proprio quello di spostare il pro-blema creando la continuazione di noi stessi nei figli, cosicché saranno loro, se mai, a risolvere il problema. Ma quando i figli non li hai allora il problema va risolto da soli, altrimenti rischi di ritrovarti vecchio e di non avere nemmeno il tempo di domandarti se hai davvero vissuto per qualcosa di importante. E magari di trovarti confuso e arrabbiato dentro un letto d’ospedale senza nessuno che badi a te come ora io faccio con te, mamma.
Ed allora viene da chiedersi se non sia meglio vivere ogni istante di questa vita al massimo delle possibilità. Andare nei posti più belli del mondo, dove il sole splende sempre, dove la gente sa ancora vivere la terra e il mare, dove non esistono stress ed ansia del guadagno. Dove è possibile fermarsi e vivere in eterno un tramonto, prendere la pioggia senza ombrello e senza paura dell’inquinamento respirare a pieni polmoni ogni stagione e ogni sera dell’anno. Allora forse una vita potrebbe valere un senso.
Ci stiamo pensando, forse seriamente, forse sperando che tutto sia vanificato dall’arrivo del bambino che ci riporterebbe al luogo comune del figlio come senso della vita, un luogo che sarà comune, ma che ha tutte le sembianze della situazione più bella della vita, quella di dare la vita.
Stanotte invece sono qui a vegliare te, mamma, che la vita me la desti quasi 44 anni fa, e con papà mi hai cresciuto e fortificato. Per questo e per tutto il resto il mio grazie di questa notte e in eterno.
Tradate, 29 febbraio 2004
 
 
IL DOLORE MI SPACCA
Il dolore mi spacca, devo scrivere per riuscire a buttarlo fuori, le lacrime non bastano.
Si sta chiudendo il cerchio: quello piccolo cominciato sei anni fa, quando da una stanza d’ospedale scrivevo a te che languivi accanto a me, in quella notte che segnava l’inizio della fine, quando anelavo la continuità con una progenie poi arrivata e benedetta, Angelica, appunto.
E si chiude il cerchio grande, quello iniziato con te che mi davi la vita, cinquant’anni fa. Il dolore mi spacca, a pensarti là, distrutta nel fisico, assente con la mente, mentre io qui a duecento km a piangere come un bambino, perché IO SONO IL TUO BAMBINO e lo sarò sempre.
Il dolore mi spacca, ma saprò superarlo, come tu hai superato tutto e hai portato a termine la tua vita, senza fermarti mai un secondo, lamentandoti di tutto, ma riuscendo a gioire anche delle cose più piccole, un picnic in montagna, un panino alla bresaola, una siga-retta sulla spiaggia dopo un bel bagno in mare.
Si chiude questo cerchio, ma fa male, come se mi strappassero davvero il cordone ombelicale.
Oggi ho avuto una nausea terribile, verso sera e poi ha chiamato papà per dirmi che stavi male.
Il dolore mi spacca, scrivo e piango, piango e scrivo, senza riuscire a fermarmi.
Mi ritornano in mente tutti quei piccoli frammenti di una vita vissuta insieme, sai quei sorrisi belli e pieni, anche i dolori, le tristezze che ti ho procurato, senza volerlo, per quell’egoismo che ci porta sempre a riflettere poco sulle conseguenze dei nostri gesti, azioni, parole. Tu sai che io sono davvero dispiaciuto di tutto il dolore che ti ho dato, ma spero di essere riuscito a darti tutto l’amore che ho sempre provato per te.
Aiutami, mamma, il dolore mi spacca, come vorrei che tu fossi qui ad abbracciarmi ancora, almeno una volta. Sai quante volte ne avrei bisogno e quante ancora ne avrò bisogno.
Io so che te ne sei andata tanto tempo fa e oggi non so dire se sto parlando a te o a me stesso per sfogare il mio dolore, farlo uscire e bruciarlo nelle parole, annegarlo nelle lacrime.
Lo so che non ci sei e che un giorno forse tornerai e se quel giorno ci sarà, vorrei essere io a svegliarti, a darti in qualche modo la vita, restituendoti il favore. Sì perché di tante cose che devo ringraziarti la più grande è stata proprio quella di avermi voluto dare alla luce, nonostante i problemi (supposti). Grazie, grazie davvero, perché questa è un’avventura che comunque vale la pena di vivere; nonostante tutti i dolori, i problemi, le difficoltà. La vita è davvero bella perché è capace di eternizzare un momento di felicità, soffocando gli anni di dolore e tristezza.
E io stanotte vivo dolore e un po’ di senso di impotenza, perché non posso far nulla per te. Forse arrivare prima che finisca la fatica, ma a cosa servirebbe? Oggi sarei partito subito, ma papà mi ha convinto a rimandare. So che morirai fra le mie braccia così come tuo papà e tua mamma sono morti fra le tue.
Cosa posso più scriverti? Cosa scrivere a me, adesso? Il dolore mi spacca.
San Pietro in Cariano, 16 giugno 2010
 
BUON COMPLEANNO, MAMMA

Il primo giorno, l’ultimo giorno. Ti ho scritto tutto ormai, ora non mi resta che scrivere i ricordi, solo quelli mi le-gano a te, solo quelli ti possono far rivivere.
Ovvio tu non morirai mai nel mio cuore, che tu hai fatto, hai alimentato con il tuo amore, hai cullato con la tua in-stancabile azione quotidiana. Quel cuore non ti tradirà, ti porterà con sé fino a quando a sua volta smetterà di battere.
Non sono riuscito a raccogliere il tuo ultimo respiro, non c’ero ad accompagnarti alla fine. Però c’era stato tempo in queste ultime notti, per stare assieme, per trasmetterti ancora un po’ del mio calore.
Oggi è il tuo compleanno, ma tu non ci sei più. Hai finito la tua esistenza e io ricordo tutto, i momenti brutti, i lutti, la disperazione; la gioia, la serenità, l’orgoglio; il dolore, la malattia. Tutto ricordo di ciò che ho vissuto di te e con te, e tutto di ciò che mi hai raccontato. Tu mi ascoltavi tanto, forse tu sei stata la persona che mi faceva parlare di più di me. Farmi parlare non è mai stato un problema, semmai farmi tacere, ma tu riuscivi a farmi raccontare, sapevi come prendermi.
Ricordo certe chiacchierate fino a tarda notte, tu ed io, i nottambuli di famiglia, sempre gli ultimi ad andare a letto, sempre i primi ad alzarci.
Adesso ci vorresti tu, qui, seduta accanto a me, oppure di là, a quel tavolo che sta in cucina da quando sono nato io, e sul quale abbiamo parlato giorni e giorni.
Da quando tu stiravi e io facevo i compiti, oppure sempli-cemente parlavo con te, tenendoti compagnia.
Ci vorresti, sapresti sicuramente trovare quelle parole semplici che io – che pure con le parole ci so fare – non troverò.
Ma io serberò nel mio cuore tutti i 50 anni vissuti con te, a volte lontani, con il corpo o con la testa, ma sempre in-sieme con il cuore.
Buon compleanno, mamma
Ti voglio bene
Tuo figlio Edoardo
Tradate, 27 luglio, 2010 
Ricordi
 
SCUOLA E ANNI ‘60
Sono l’ultimo di tre figli maschi, e mia mamma avrebbe tanto desiderato una femmina. Così tanto da aver vestito completamente di rosa (complice anche la nonna materna) il primo figlio, mio fratello Marco, nato nel 1949. Periodo del difficile dopoguerra e dopo fascismo, speranze di libertà, ansie per il futuro, povertà lenita solo dal saper godere ogni minima cosa mancata in passato. Mia mamma aveva 26 anni quando partorì il primo maschio, quasi 37 quando mise al mondo me. In mezzo Paolo, nato nell’ottobre 1954. Quando venni alla luce io in Italia si viveva il “boom economico”, ma anche i costumi iniziavano a cambiare, la gente italica usciva dal provincialismo in cui era stata costretta da dittatura e miseria.
Anch’io sarei dovuto essere una femmina, almeno nelle speranze di mia mamma. Visto che il risultato biologico era stato diverso credo che ella auspicasse almeno che potessi rimanere il suo “bastone della vec-chiaia”. Nel 1960 la nostra differenza d’età era davvero tanta e la “vecchiaia” veniva considerata già dai 70 anni, o anche prima.
Talvolta diceva: “pensa che bello se tu ti facessi prete! Io ti farei da Perpetua!” “…e mi da sacrista!” le faceva eco da dietro mio papà.
Non so davvero se lo pensasse o se fosse uno scherzo, forse c’era solo il desiderio di avermi vicino, e a lungo, visto che già a 22 anni Marco se ne era andato prima a fare il servizio militare e poi sposandosi in Piemonte dopo aver conosciuto la futura moglie da ufficiale di complemento.
Io facevo ancora le medie e appena in prima liceo divenni zio. E i miei, nonni. Mia mamma aveva 51 anni e pochi mesi,e non sapeva ancora nuotare!
Già perché sarei stato io ad insegnarglielo… uno o due anni più tardi.
Non ho detto il sesso del nipote, ma avete già capito: maschio!
Andiamo per ordine, anche se questa storia nasce dal flusso dei ricordi e dei sentimenti, che poco ordine hanno dentro al cuore e nei meandri della memoria emotiva. 
1960, dunque. Pagherei per vedere mia mamma e il suo sguardo su di me. Ma per fortuna ho un papà ap-passionato di cine e foto e così ho alcune foto del battesimo – io avevo dieci giorni – in cui mia mamma sorride, felice ed orgogliosa. Da quel giorno fino alla scuola non ho memoria di essermi staccato da lei per un periodo superiore alle due ore di parrucchiere, ma sempre in compagnia di qualche familiare (la mitica zia Rosa, papà ecc.). Intendo che mai ho dormito lontano da lei, anzi dormivo nel mio lettino, ma in camera con i miei genitori, mentre Marco e Paolo si dividevano l’altra stanza (letto a castello, quelli di ferro).
Avrete immaginato che non ho frequentato l’asilo. Motivo: all’asilo si prendono le malattie infettive! Ed infatti non le ho contratte. Almeno fino all’età scolare. Poi nell’ordine mi sono sciroppato gli orecchioni a 8 anni, il morbillo a 11, la rosolia a 24 e dulcis in fundo – speriamo! – la varicella alla tenera età di 36 anni!
Niente asilo, giochi con coetanei limitati ai miei cugini (un maschio da parte di papà e una femmina da parte di mamma) che frequentavo abbastanza assiduamente, soprattutto Fabio, ma nell’ordine delle tre, quattro volte al mese. Poi molto gioco con i miei fratelli, Paolo soprattutto che mi faceva da “maestro” e che mi ha praticamente insegnato a leggere prima di andare a scuola. 
La scuola, dunque. Era il 1° ottobre 1966, io avevo sei anni e mezzo esatti, e non ne potevo più di passare le giornate in casa! Ero emozionato, ma anche felice. Sentivo che iniziava una nuova era.
Credo che anche mia mamma lo sapesse bene. Un pezzo del cordone ombelicale si stava rompendo e per la prima volta mi vedeva scomparire, inghiottito dalle pareti del maestoso edificio. Venne su con papà ad accompagnarmi in classe. Io ero però impegnato a contare i miei compagni d’avventura. Erano 31, lo ricordo bene. Riguardai fuori dalla porta, loro non c’erano più.
Ma io ero tutto preso ad ascoltare la mia maestra, che ci raccontava la storia di San Francesco. Non so quanto durò quella mattina, ma so (grazie all’immortalità delle riprese con la 8mm di mio padre) cosa accadde quando uscii da scuola: ero orgoglioso, mi sentivo grande e importante, non volevo che nessuno – nemmeno mia madre – toccasse i miei quaderni di scuola.
Da allora tutti i giorni mia mamma mi accompagnò a scuola, per cinque anni. A piedi, naturalmente, dato che non prese mai la patente di guida, con la pioggia e il sole, la neve (quanto nevicava in quegli anni!) la nebbia.
L’automobile solo il sabato, grazie alla presenza di papà, che ci portava, a me a scuola e a lei a far la spesa, prima con la FIAT850, poi – addirittura – con la FIAT128.
Cinque anni per imparare a staccarci, almeno un po’. Ricordo che dalla seconda frequentai un corso di inglese al pomeriggio e ci andavo con la mamma di Lorenzo. E una volta ricordo che andai al cinema parrocchiale senza essere accompagnato da nessun adulto: mia mamma riuscì a vedermi a trecento metri di distanza, sporgendosi dal balcone, fino a quando svoltai l’angolo dell’isolato. Per me era felicità, primo sapore di libertà, per lei chissà quale tormento, nell’attesa. Non so perché accadde, ma da lì cominciò a pensare che potessi iniziare a cavarmela da solo.
 
LA SIGARETTA

E’ difficile trovare una foto di mia mamma senza la sigaretta fra le dita. Non ne fumava molte, forse per-ché fumava solo quando si riposava, e si riposava pochissimo.
Fatto sta che immancabilmente lei appare sempre con la sigaretta in mano, qualche volta – soprattutto nei filmati – anche mentre aspira con gusto, assaporando fino in fondo il sapore, magari strizzando leggermente gli occhi, infastiditi dal fumo, ma subito aprendosi in quella risata appena trattenuta, così per educazione. 
Anche nell’ultima foto, la sigaretta fra le dita, sopra il gomito piegato.
Credo che abbia vissuto la sua vita allo stesso modo, aspirandola ogni giorno profondamente, con i suoi amarognoli sapori, ma anche assaporandone le gioie, appena trattenute dal pudore e da un’antica, irripetibile educazione.
 
 
IL PICNIC

Ci sono delle cose che restano impresse nella memoria, a volte inspiegabilmente. Una di queste è per me ciò che era l’attesa, lo studio, la preparazione e – infine – la realizzazione dei mitici Pic-nic. Non so bene quanti in effetti ne abbiamo fatti. Forse pochi, addirittura pochissimi quelli partendo da Milano, forse qualcuno in più partendo da Barzio, in estate, ma ero troppo piccolo per ricordarmene. Simili ai picnic c’erano le gite invernali in montagna, ma mancavano di alcuni aspetti essenziali per capire la mentalità della mia famiglia, in quegli anni.
Dunque il tutto avveniva più  meno così.
Mio papà studiava destinazione, percorso, tabella di viaggio e ora di partenza. Contattava e si accordava con lo zio Goffredo, o con Felice, o con qualcun altro in montagna per avere la giusta compagnia.
Mamma rispolverava l’attrezzatura necessaria, a parti-re da quel contenitore in modernissimo “Moplen” dove trovavano posto con una tecnica da far invidia a quella  giapponese e in dimensioni ridottissime sei piatti piani, altrettanti fondi, tutte le posate, i bicchieri, e persino un paio di ciotole. Assolutamente incredibile.
Poi i plaid, i tavolini e le sedie (di legno!), e chissà cos’altro ancora.
Tutto veniva preparato in anticamera. Ad un certo punto, mia mamma sopraffatta da tutto il lavoro, al culmine dello stress sbottava:”Io non ce la faccio, non si va via!” 
Era un primo ed importante segnale che tutto stesse procedendo bene.
La mattina fatidica, domenica, mio papà si alzava, scostava la persiana e osservando uno spicchio mini-mo di cielo decretava: “c’è brutto tempo!”
Era il segnale definitivo: il picnic poteva cominciare.
Sarebbe stato memorabile.
 
AUTOGRILL
Quand’ero piccolo io, non c’era l’Autogrill, c’era solo il “grill” in autostrada, che quasi sempre era un “Pavesini”. Per me era una cosa stupenda quando ci ferma-vamo – a dire il vero raramente – a consumare quel pasto così insolito, dove ci si serviva con un vassoio e ci si portava il cibo al tavolo, senza camerieri! Io l’adoravo, ma non mi ero accorto, da piccolo, quanto piacesse anche a mia mamma. Forse non le piaceva più di quanto comportasse il fatto che non le sarebbe toccato cucinare e lavare i piatti, forse cominciò solo più tardi, invecchiando, ad apprezzare i pasti consuma-ti all’autogrill.
Sicuramente negli ultimi anni iniziò a piacerle. Ricordo nel 2003, quando mia mamma aveva già 79 anni, una volta che dovendo raggiungere Torino per affari,  mi fermai dai miei a Tradate per salutarli, fermarmi una notte e ripartire.
Quando l’indomani, giunto a Torino, mi accorsi di aver dimenticato a casa loro il portafoglio con documenti, denaro, carte, ci accordammo per telefono di trovarci a mezza via. L’incontro avvenne   in una area di servizio con tanto di Autogrill da una parte e relativo svincolo riservato per permettere a coloro che percorrono l’autostrada nel senso opposto, di accedervi.
Per sdebitarmi dell’incomodo e considerando il fatto che erano ormai le sette, sette e mezza di sera,  li invitai a cena. In Autogrill, ovviamente.
Lì mi accorsi che l’incomodo si stava trasformando in un piacevole diversivo per i miei, per mia mamma soprattutto che si prese – e divorò – una insalatona ricca di tutto. 
Per me un déjà-vu carico di nostalgia, addolcito dalla grazia che avvolge le situazioni che sanno estraniarsi dallo spazio e dal tempo circostante, per regalarci istanti di eternità.
 
WINCHESTER CATHEDRAL

Ci sono stato, poi, un giorno per davvero: in Inghilterra, fra le verdi e noiosissime colline britanniche, nel centro della contea dell’Hampshire dove sorge la cittadina di Winchester, con la sua cattedrale.
Per me Winchester Cathedral era sempre stata “Uincè-ster cafidral (con la lingua regolarmente in mezzo ai denti), la celeberrima canzone inglese del 1967 che faceva il verso alle sonorità degli anni ’30 e ’40 e che a mia mamma piaceva tantissimo, anche perché cantata in Italia da Natalino Otto, idolo delle ragazzine del tempo suo.
Così ogni volta che prendevo la chitarra, era d’obbligo intonare quella canzone, di cui mia mamma ricordava alcune parole in inglese e ci teneva a pronunciarle al meglio. Già l’inglese e l’Inghilterra erano sempre stati la sua “America” il sogno rincorso da sempre. Ed anche in questo sono stato il testimone e il complice del raggiungimento di quel desiderio. Nel 1976, forse quando appena aveva imparato a nuotare, volò con mio papà (sì, prese proprio l’aereo!) a Londra, dove io li attendevo con i mitici Mr. &Mrs. Wells, inglesi doc amici conosciuti al mare.
Ci stette solo 5 giorni, ma se li godette tutti, nel bello e nel meno bello, come la sorpresa di trovarsi la domenica pomeriggio ad un tè ricco di dolci, per poi scoprire che quello era il famoso “Sunday Tea” il tè della domenica che si svolgeva una mezzora più tardi dell’ora canonica (verso le 5 e mezza), ma che costi-tuiva anche la cena. (Io l’avevo avvertita: mangia i dolci, dopo non c’è altro; ma lei, nulla! Figurarsi se mangiava dolci; solo una fettina, così per educazione).
Immaginatevi al ritorno a casa: niente profumi, niente cena.
Toccò a me spiegare il frainteso, un po’ per la sopravvenuta dimestichezza con la lingua, un po’ perché già ero “di famiglia” dopo quattro settimane di soggiorno.
Rimediammo qualcosa da mettere sotto i denti, e il ritrovato sorriso di tutti mi tolse dall’imbarazzo.
Se ci fosse stata la chitarra avremmo intonato Winchester Cathedral chiudendola con “my baby left town”.
 
L’ULTIMO PICNIC

Ci sono date che rimangono impresse nella memoria, anche se apparentemente non sembrano legate ad alcunché di importante o rimarchevole. Il 17 Agosto 2002  era una di queste, sempre rimasta indelebilmente nel ricordo. Poi ne ho capito il motivo, è stata una delle prime “ultime volte”.
Non un picnic come quelli di trenta quarant’anni prima, no di certo. Solo un picnic improvvisato, deciso all’ultimo, solo con me ed i miei genitori.
Ero andato a prenderli in montagna, nella ormai consueta val Venosta: non se la sentivano più di affrontare il viaggio da soli, così partii da Verona il pomeriggio del 16, dormii da loro in montagna e poi sabato 17 tornammo verso Milano. Come al solito mio papà a-veva preparato un percorso alternativo e ci propose di fare una deviazione, in Svizzera, nella valle del ghiacciaio del Morteratsch. La giornata era splendida, così prima di partire da San Valentino comprammo lo squisito pane locale, l’altrettanto gustoso speck e via!
Simile ai mitici picnic della mia infanzia ci fu la ricerca del posto, complicata dal fatto che questa volta non avevamo né tavolini, né sedie. Ma con un po’ di fortu-na trovammo un bello spazio con pietre larghe e comode,  e persino con un paio di tronchi recisi, perfetti come sgabelli.
Aprire i pacchetti e confezionare i panini,  rivedere sul volto di mia mamma la gioia di un tempo mi regalò i-stanti di magica leggerezza, di assenza e lievitazione del senso del tempo; la nostalgia rivestì quelle calde ore di mezza estate di eterna fanciullezza.
Non mancarono nemmeno i pomodori, in quel dolce ultimo picnic, e neanche una breve camminata verso l’inizio del ghiacciaio, sotto al quale giunge il trenino del Bernina, rosso come le passioni che non si spen-gono mai.
 
LEZIONI DI NUOTO

Non ricordo se avesse cinquanta o cinquantadue anni.  Fatto è che le venne decisamente voglia di imparare a nuotare. Erano ormai anni che trascorrevamo le estati in Liguria, in quel di Celle, e forse mia mamma si era stanca di bagnarsi attaccata alla corda che reggeva la boa, mentre noi figli ci tuffavamo come pesci dentro il mare profondo. Così mi chiese di insegnarle a  nuotare. Furono giorni divertenti e un po’ stancanti, ma dedicai volentieri quel tempo – rubato alle mie giovanile esperienze - a cercare di spiegarle i movimenti dello stile “rana”, senza ovviamente che portasse il viso sot-tacqua, visto il divieto assoluto dei suoi capelli di ba-gnarsi, pena il crollo della “permanente “. Il fatto che indossasse la cuffia – quelle di gomma rigida e total-mente impermeabile – non le vietava di tenere il collo rigido e alto per evitare di bagnarsi, anche semplicemente il viso, ad ogni ripetuto e frequente schizzo d’acqua causato dagli altri bagnanti. Quando succedeva appoggiava subito i piedi e si rialzava; sì perché si nuotava sempre a riva, dove si toccava. E siccome a Celle si tocca per un metro e mezzo, massimo due, la “nuotata” si svolgeva in orizzontale, per otto, dieci metri al massimo! E fu sempre così, da allora per i quasi tre decenni successivi. Ma per lei fu una conqui-sta: piccola se volete, ma tutta sua e ottenuta con le proprie forze. E una volta tanto, con il mio aiuto.
 
 
IN RITARDO

Tutte le mattine, per uscire ad andare a scuola,
Tutte le domeniche, per andare a messa,
Tutte le volte che si partiva, per una vacanza, 
per una gita o per la consueta trasferta della domenica pomeriggio.
Sempre, regolarmente, precisamente in ritardo.
Ma sempre arrivata in tempo.
 
 
Ricordi di Ricordi
 
 
LA GUERRA

Quando parlava della guerra mia mamma parlava della Paura. Quella dei bombardamenti, quella di ritrovarsi senza cibo, senza un tetto, paura di morire, o di perdere i propri cari. Ricordo che come mi descriveva il suono della sirena che annunciava un’incursione aerea nemica, o l’angoscia della valigia sempre pronta per la corsa verso il rifugio.
Ma il “tempo di guerra” le ricordava anche le feste danzanti, minime, in casa, con le tende spesse tirate per ottemperare all’oscuramento: un giradischi, qualche vinile a 78 giri, e via a passo di fox-trot, valzer, tango, cha cha cha.
Ma la guerra – purtroppo e soprattutto – fu per lei  la distruzione della propria casa, il 20 ottobre 1944, durante uno degli ultimi bombardamenti su Milano. Mia mamma era al lavoro e tutti gli altri membri della famiglia fuori casa. Ci furono dei morti fra i vicini, feriti e miseria per tutti. Da lì cominciò un angosciato pellegrinaggio da una stanza in coabitazione a un alloggio assegnato in una casa di ringhiera, senza bagno, con i servizi igienici in comune, da dove sarebbe uscita solo quattro anni più tardi, con il matrimonio.
La guerra vissuta tra i 17 e i 22 anni, nell’età che do-vrebbe essere dedicata alla spensieratezza, tentò di rubarle la giovinezza, ma lei seppe viverla e assaporarla ugualmente, a modo proprio, con quello stile che avrebbe conservato negli anni a venire, stile segnato da educazione e  pazienza, coraggio e semplicità.
 
 
IL BALLO

Il sogno, la passione, il desiderio mai sopito di tutta la vita. Dapprima voleva fare la ballerina o la ginnasta, poi da ragazzina anelava ad essere invitata ad ogni festa.
Un giorno, mi raccontava spesso, all’uscita della scuola c’erano dei ragazzi più grandi che invitavano le ragazze ad una festa danzante. Mia mamma si aspettava l’invito ed invece ricevette un “cosa vuoi tu? Un invito per l’asilo?” Ci rimase malissimo, ma quando lo raccontava, aggiungendo un “villano” all’indirizzo del maleducato,  sorrideva, quasi avesse ricomprato il dolore e le umiliazioni di un tempo con la propria vita, il matrimonio, i figli.
Eppure sposò l’unico ragazzo che con il ballo non a-veva e non voleva spartire alcunché. 
Mi raccontava delle feste all’ombra di spessi tendoni scuri,  durante la guerra e l’obbligo dell’oscuramento. Oppure quando, dopo la liberazione, Milano era diventata una grande e immensa pista da ballo, con il nuovo e travolgente Boogie Voogie, ma anche con i tradizionali balli tanto amati.
Ma ci furono anche negli anni seguenti i momenti di danza, come quando andavamo (sì perché da bambino seguivo sempre i miei genitori) a ballare con gli amici Giulio e Luisa, grandi ballerini; oppure Elio di Novara. Mia mamma si illuminava e si esprimeva sulla pista: era brava, aveva talento, e si divertiva.
 
 
 IL PIU’ BEL GIORNO

“Quello del mio matrimonio.” Senza esitazioni così rispondeva mia mamma a chi le chiedesse di indicare il più bel giorno della sua vita.
Forse perché aveva una gran voglia di creare una famiglia propria, forse perché amava mio padre, forse perché vestiva di bianco il suo diventare cigno da anatroccolo quale si era sempre sentita.
Forse tutto questo insieme.
Ho delle foto, di quel giorno. Scattate dallo zio Gino, appassionato di fotografia. Si vede la gioia negli occhi di mia mamma, la soddisfazione e l’orgoglio.
Eppure non era un matrimonio facile. I miei nonni paterni erano appena prematuramente morti, lui due estati prima,  ad appena 46 anni , e lei a 50 anni, solo sei mesi addietro. Mio padre, 24 anni, aveva a carico il fratello minore, ed allora anche minorenne, di appena 20 anni. Gli sposi se lo tennero in casa, casa che era la stessa dove i fratelli abitavano con i defunti genitori.
D’altra parte mia mamma una casa vera non l’aveva più da 3 anni e mezzo, da quel 20 ottobre ’44, quando una bomba destinata agli stabilimenti dell’Alfa Romeo aveva invece distrutto la casa di viale Certosa dove abitava da 15 anni, da quando era arrivata a Milano.
Scelsero così di sposarsi al Giambellino, nella chiesa di S.Vito che sarebbe poi stata la chiesa di tutti i sacramenti di noi tre figli.
Non un matrimonio facile, dunque. E soprattutto non ricco. Celebrato di giovedì pomeriggio, un rinfresco alla buona, in casa, e poi via verso il viaggio di nozze, per quel tempo ardito, sulle Dolomiti. In treno e corriera, naturalmente.
Eppure, il giorno più bello e più ricordato della mia mamma, per un matrimonio – d’altra parte -  durato oltre 62 anni.
 
INFANZIA INFELICE

Ne parlava spesso, ma quasi sommessamente, forse per non risvegliare sofferenze sopite, ma mai metabolizzate, forse per non riaprire ferite appena rimarginate. Chissà cos’era successo, o forse davvero niente di particolare, se niente si può definire la terribile sensazione che può provare una bambina nel sentirsi non amata e non desiderata dalla propria madre. Fu sempre così, sin dalla sua nascita, frutto di un matrimonio combinato tra il nonno materno – potente segretario comunale di Stresa, e il rampollo di una famiglia bene della vicina Meina. Ameno Lago Maggiore, che già in quella prima parte del secolo XX era rinomata meta turistica per nobili e borghesi di tutta Europa.
Sin dalla nascita, dunque, la brutta sensazione. Durata poi tutta l’infanzia e tragicamente acuita dalla nascita della sorellina, otto anni più tardi. La preferenza per la secondogenita fu sempre chiara e netta, e fu ribaltata anche sui nipoti, feci in tempo a rendermene conto anch’io, che avevo solo dodici anni quando mia nonna morì. Questa sofferenza maturò una decisione che ostinatamente e con determinazione feroce mia mamma portò avanti sempre: non fare la minima differenza, materiale e affettiva, fra i figli.
Ma questo non bastò a lenirle i dolori del mancato affetto da parte della madre. Ebbe però la sua parziale, tardiva - ma importante - ricompensa; e ricordo il viso sereno se non felice, di quando mi raccontò degli ultimi minuti di vita di sua mamma.
All’ospedale, dopo una improvvisa crisi cardiaca. Mia mamma seduta accanto alla propria che giaceva nel letto, e questa che per lunghi minuti le accarezzava il viso, senza parlare. Solo carezze ed affetto, quasi scuse silenti per decenni di indifferenza. Carezze ed affetto, prima che una nuova e definitiva crisi le fermasse il cuore per sempre.
 
 
CONSUETUDINI, RITI E PICCOLE MANIE
Il pranzo di Natale: antipasto a base di affettati misti (immancabile la lingua); sottaceti e sottolio nella medesima ciotoliera in legno e ciotole in cristallo; ravioli di carne; cappone (metà arrosto e metà bollito); vitello tonnato guarnito da cetriolini sottaceto sfogliati da un’estremità, patè di fegato d’oca, mostarda. Datteri, frutta secca a terminare. Panettone. 
Sempre così per anni e decenni. Sempre così, compresi (talvolta a cadenza biennale) i gioiosi urli di dimenticanza: “La mostarda!!! Il paté!!!”
Il panettone di Natale, proprio quello aperto il giorno, al pranzo di Natale, veniva consumato tutto tranne una piccola fetta che mia mamma custodiva per 40 giorni, per riproporcelo il giorno – la mattina a colazione – del 3 febbraio succes-sivo, giorno di San Biagio. Quella mattina dovevamo masticare un pezzo del secco e grattugiante la gola panettone recitando un Pater e tre Ave Maria. Questo senza bere un filo d’acqua, naturalmente per preservarci la gola.
La cena: alle otto di sera, non un minuto di ritardo se non giustificato da eventi disastrosi, pena un muso per tre giorni.
In lavatrice: le camicie sempre con un nodo fatto alle maniche.
Stirare: sul tavolo della cucina, seduta.
La maionese: preparazione, organizzazione ed esecuzione svolta con meticolosa e religiosa attenzione, affinché tutto si svolgesse perfettamente e la maionese non “impazzisse”. Cosa che invece accadeva una volta su due, scatenando la sua disperazione e la mia contentezza, visto che, rifacendola ce ne sarebbe stata il doppio.
Il pisolino pomeridiano: ineluttabile, imprescindibile; dalle 14.40-14.45 alle 15.00 – ora in cui scadeva il coprifuoco; dopo i piatti e prima delle attività casalinghe pomeridiane.
La mezza sigaretta:quella fumata dopo il pisolino, con un apposito bocchino, conservando l’altra metà (in realtà un terzo), quella con il filtro attaccato, in una scatoletta di legno dove attingere in caso di necessità tabagista.
Il bicchierino di Braulio: dopo cena, per digerire.
Il film preferito: Via col Vento
L’attore comico: Walter Chiari
L’attrice comica: Monica Vitti
Hobby culturale: assistere a tutti gli spettacoli del teatro alla Scala
Il cantante dei suoi diciottanni: Natalino Otto
I cantanti in epoca più recente: tutti quelli, so-listi e gruppi – italiani e stranieri – degli anni sessanta.
 
Epilogo
Chiudere questi ricordi è come chiude-re di nuovo la cassa, nascondere il vol-to, seppellire mia mamma. 
Non vorrei mai farlo.
Eppure devo, pena il non riuscire a dif-fondere ciò che ho scritto, e quindi non perpetuare il suo ricordo.
Ma è dura, e difficile scegliere le parole con cui chiudere.
Ho scelto di usare quelle che mia figlia – la mia continuità – dice sempre in se-rate luminose e stellate.
Immancabilmente da luglio ogni volta che ci troviamo sotto un cielo imbiancato di stelle, Angelica, sei anni,  esclama: 
“Che bel cielo stellato! Chissà quale è la nonna! Sicuramente la più brillan-te… eccola, eccola là! 
Ciao nonna!”
Ciao mamma.
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